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Dalla terra alla tavola: le virtù

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Le ultime giornate di aprile sono sinonimo di rinascita per l’Italia, si risveglia dal letargo invernale e si gode il tepore del sole che consente le prime gite fuoriporta. Ma in Abruzzo, parallelamente ai pranzi in giardino e ai primi bagni in piscina, si da il via alla preparazione di un piatto tipico della cucina povera: le “virtù”. Ufficialmente nato nel teramano, è stato esportato in tutta la regione, in cui si comincia a consumare il primo giorno del mese di maggio, onorando l’antica tradizione.
Il termine virtù, di per sé, è utilizzato per indicare elementi positivi o eccezionali, dalle 4 virtù cardinali alle 3 virtù teologali, sino ad arrivare alle semplici virtù umane, che non sono altro che qualità eccelse riconosciute alle persone speciali. De Andrè diceva «ho sempre pensato che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore, anche perché non ancora ho capito bene che cosa sia esattamente la virtù e che cosa esattamente sia l’errore», mentre noi abruzzesi sappiamo bene cosa sono le virtù: uno squisito piatto unico ricco e molto nutriente. Ancora oggi viene preparato dalla maggior parte delle famiglie, seppur scegliendo accuratamente gli ingredienti.  Con la scelta si perde un po’ il significato originale del piatto, in quanto veniva creato unendo i pochi beni alimentari di cui si disponeva e spesso venivano utilizzati avanzi o scarti. La “ricetta” prevedeva l’unione di tutte le rimanenze delle dispense, come i legumi secchi e i residui di pasta, con le verdure fresche, le uova e carne di vario genere (polpettine, salsiccia, pancetta o prosciutto, orecchie del maiale, ossa di prosciutto), il tutto condito con olio, pomodoro e spezie. Ogni elemento era cotto singolarmente e poi unito, soprattutto la pasta che va aggiunta poco prima di servire.
Nel corso del tempo la modalità di preparazione è stata modificata e adattata alle disponibilità e alle preferenze di ognuno; per quanto ci si possa sforzare di cercare la ricetta originale, non ne esiste una ufficiale, proprio a causa del suo esser un piatto di ripiego. Ma cosa c’è dietro al nome che ne esalta le qualità? Ce lo spiega lo chef Antonio Catone di Penne, che da anni si dedica alla riscoperta dei sapori originali della cucina povera della nostra terra: «Il nome “virtù” non si riferisce alla peculiarità dei prodotti o alla bontà del piatto – cosa che si può erroneamente pensare data la sua effettiva squisitezza – bensì alle doti delle donne che lo preparavano. Gli ultimi giorni di aprile erano critici per le famiglie, in quanto le scorte dell’inverno stavano terminando e le nuove colture non ancora erano sufficienti per sfamare il numeroso nucleo famigliare. La donna di casa racimolava il poco che aveva a disposizione e ne creava un minestrone con cui poter far mangiare tutti, ed è per questo che al piatto venne dato un nome che ne omaggiasse la bravura». Da qui ne si deduce anche il motivo per cui, secondo la tradizione, si consuma il 1 maggio, quando le famiglie abruzzesi, dopo tanta fatica tra i campi, si ritrovano attorno al tavolo per render onore ai doni che la natura gli ha fatto per ringraziarle di un anno di duro lavoro.

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