Prosegue (quasi) senza soste la folle rincorsa del Delfino verso la Serie C. Come avevamo abbastanza facilmente preventivato e temuto nello scorso editoriale, anche il Pordenone si è dimostrato un ostacolo insormontabile. Comunque, dopo aver ingaggiato ad inizio stagione un tecnico retrocesso sul campo, ovvero il suo amico del cuore Massimo Oddo, ora il presidente dell’ultimo decennio biancazzurro lo ha finalmente esonerato, scegliendo dal mazzo Roberto Breda, ovvero l’allenatore che finì anch’egli in Serie C lo scorso anno, precisamente con il Livorno. Evidentemente l’obiettivo da raggiungere sta talmente a cuore alla società che preferisce incaricare solo specialisti del settore, per non correre rischi. Va detto che la Rosa messa in piedi, si fa per dire, quest’anno, è talmente mal assortita che anche se in panchina sedesse Massimiliano Allegri, che alcuni tifosi hanno scherzosamente invocato in questi giorni, molto probabilmente l’obiettivo stagionale sarebbe comunque centrato. Vero è che anche l’assemblea di Lega B, riunitasi lo scorso 26 novembre, deliberando la richiesta di sole tre retrocessioni per questa stagione, sta provando a mettere i bastoni fra le ruote al Pescara. Una decisione, a nostro sindacabile giudizio, inutile: se davvero l’intenzione fosse quella di disturbare i progetti di Sebastiani, l’unica soluzione avrebbe dovuto essere il blocco totale delle retrocessioni. Il presidente non mentiva quando, sfidando la sorte, annunciò a suo tempo che sarebbe stato ricordato a lungo dalla tifoseria biancazzurra: dopo i record conquistati in serie A, ora ha preso di mira anche quelli della cadetteria, perché le chiacchiere potranno anche stare a zero, ma i numeri e le statistiche non si potranno mai cancellare.
Il giorno prima della su menzionata assemblea ci ha lasciati, come chiunque su questo pianeta ben sa, Diego Armando Maradona. Lo vogliamo giustamente omaggiare, perché Il nostro editoriale, sebbene si occupi nello specifico di vicende locali, già in passato ha fatto delle eccezioni, come in calce al Lunedì del Delfino datato 28 marzo 2016, allorquando ricordammo doverosamente la scomparsa di un altro immenso interprete di questo gioco, forse il migliore nato nel continente europeo: Johan Cruijff.
Difficile, però, non risultare banali e ripetitivi, dovendo scrivere dell’argentino. In questi ultimi giorni sono stati spesi non fiumi, ma oceani di parole, per lui, che si aggiungono, per inciso, a quanto già detto nel corso degli scorsi decenni. Abbiamo riflettuto a lungo, per decidere infine, dando per scontata l’impossibilità di essere originali, di ricordarlo nel modo forse più classico di sempre: l’eterno dualismo con Pelè. Un amletico dubbio che chiunque, nel corso della sua vita, da quando il Pibe de Oro è apparso ad illuminare di luce propria i campi da gioco, si è certamente posto. Premetto che la mia personale corona di Re assoluto, io l’ho sempre consegnata ad un altro biancoceleste, ovvero Don Alfredo Di Stefano, un genio assoluto, non solo in qualità di calciatore, ma anche di allenatore e, soprattutto, di uomo. Non avendo però mai nemmeno partecipato ad una fase finale di un Mondiale, né con la maglia dell’Argentina, con la quale ha, fra l’altro, disputato solo 6 (sei) incontri, né con quella della sua seconda patria, la Spagna (31 gare con le Furie Rosse), risulta per questo “fuori concorso”. Pertanto, dovendo scegliere fra Pelè e Maradona, per i motivi che ora scriverò, ho optato per il secondo. Tolta la spiegazione più diffusa, ovvero che il brasiliano non si è mai confrontato con il calcio europeo (rimane comunque, questa, la prova più evidente della superiorità di Diego), a favore della Perla Nera peserebbero 3 (tre) titoli Mondiali, contro uno solo di Maradona. Analizziamo, pertanto, questo divario in termini di trofei. Il primo vinto dal brasiliano fu quello del 1958, in Svezia e fu, indubbiamente, una Coppa Rimet (così all’epoca si chiamava) targata Edson Arantes do Nascimento, nulla da aggiungere: per la prima volta nella Storia del calcio la maglia con il numero “10” assumeva il significato che oggi tutti conosciamo. Quattro anni più tardi il secondo successo, ma in questo caso, di suo, non ci fu praticamente nulla, giacché s’infortunò nel corso del secondo match, contro la Cecoslovacchia, dando l’addio a quella competizione. Il Brasile la vinse comunque, anche senza di lui. Dopo il pessimo (sia per lui, che per i verdeoro) mondiale inglese del 1966, ecco che nel 1970 arrivò l’apoteosi consacratoria. Quella Nazionale è, ad oggi, universalmente riconosciuta, come la più forte di tutti i tempi. Pelè c’era e fu uno dei protagonisti, ma anche senza la sua presenza, quasi certamente i sudamericani avrebbero trionfato. Aggiungiamo anche che, all’epoca, quando un calciatore brasiliano sceglieva di andare a giocare in Europa, perdeva poi ogni diritto a vestire la maglia della Nazionale. Delle due l’una, quindi. Se avesse proseguito la sua carriera dalle nostre parti, forse avrebbe potuto paragonarsi all’argentino, ma in quel caso non avrebbe conquistato i tre titoli mondiali. La “mano di Dio” ha invece disputato altrettante fasi finali (quattro), imponendosi però solo in una, quella del 1986, che sarà ricordata per sempre come l’unica, in uno sport di squadra, vinta praticamente da un solo atleta. Idealmente avrebbe vinto anche il titolo del 1978, ma César Luis Menotti decise di non convocarlo, forse per non disturbare gli equilibri della Rosa, nonostante avesse già debuttato l’anno prima con l’Albiceleste e fosse fresco vincitore del titolo di capocannoniere del campionato argentino. Nel 1990, di nuovo capitano di una Nazionale davvero scarsa, nonostante tutto e tutti, riuscì ancora a raggiungere la finale, sempre contro la Germania. Di quel bruttissimo e, per noi italiani triste epilogo, si ricorda solo il calcio di rigore che lo decise, a pochi minuti dal termine. Fu fischiato in maniera assolutamente generosa, a favore dei tedeschi, dall’arbitro messicano Edgardo Codesal Méndez. Come ci ha ricordato l’immenso giornalista Gianni Minà, quel direttore di gara era il genero di Guillermo Cañedo, vicepresidente della FIFA e sodale del presidente, il brasiliano João Havelange, che avrebbe mal digerito due vittorie consecutive dei cugini argentini, nel corso del suo mandato.
Non abbiamo aggiunto che, a favore di Pelè, peserebbe l’impressionante numero di reti messe a segno (oltre 1200), questo perché il loro peso specifico, almeno in termini puramente aritmetici, visto dove sono stati realizzati, ha un valore relativo, sebbene indiscusso. D’altronde a Pescara, nel 1988, giunse un altro brasiliano che portava in dote oltre 500 (cinquecento) reti già nel palmarès: Edmar Bernardes dos Santos, che non fece però molto per rimpolpare il suo bottino, in maglia biancazzurra. Ognuno resterà, in ogni caso, con il suo personale Numero Uno assoluto nella testa, anche dopo queste mie poche righe e, in fondo, va bene così, il calcio è anche questo.
"Si parla di un campione o di un altro a seconda delle generazioni, ma io so che fra 100 anni, se si parlerà di calcio, si dovrà parlare di Maradona, così come per la poesia si cita Rimbaud e per la musica Mozart". Eric Cantona