Ambasciatore della cucina d’Abruzzo è l’artefice del viaggio transumante: l’agnello. Dalle montagne dove l’aria è rarefatta e d’inverno si fa gelida, scendono verso valle le greggi. Con passo lento le pecore scandiscono il ritmo delle stagioni, un migrare lento ma deciso, circolare. La transumanza ha in se il senso dell’opportunità andare dove è più caldo, seguendo il richiamo dell’erba fresca. I mandorli sui monti, i peri sulle mezze altezze e le aiuole di more a valle che incorniciano la migrazione sono sapori e profumi che si stampano nelle carni, sentori, memorie che custodiscono potenziali abbinamenti. Il pastore consacra le sue assenze da casa a questo viaggio. Dalla conoscenza intima delle sfumature olfattive degli erbacei nasce il bagaglio culturale del pastore secondo forse solo a quello del contadino, a cui chef e ristoratori continuano ad attingere. Il ruolo di chi cucina è di sprigionare ogni potenzialità della materia prima con la sua arte.
L’agnello, gode di una grandissima tradizione. È possibile utilizzarlo in cucina dalla nascita fino a fine carriera.
Ogni piatto necessita di un tipo di ovino.
L’agnello da latte tenerissimo non richiede lunghe cotture, è perfetto al forno o al tegame. Il castrato è messo all’ingrasso, la carne assume una colorazione rossa come un manzo, marezzata, bellissima, perfetta per la griglia anche tenuta al sangue o per il ragù. La pecora che non ha partorito è detta ciavarra, molto versatile nelle preparazioni. Il maschio dell’agnello è più facilmente reperibile e più usato nella ristorazione, le femmine invece hanno vita più lunga e servono a perpetuare l’allevamento e a dare il latte. Un accorgimento per chi voglia farsi ambasciatore della tradizione di un territorio è non credere, mai, che la sua arte possa dare nobiltà a ingredienti modesti, anche se ne è in grado.
Se ogni piatto vuole un tipo di ovino, ogni parte dell’ovino richiede una ricetta che lo valorizzi al massimo perché come per il maiale anche dell’agnello non si butta via nulla.
Iniziamo dal collo. È ideale, disossato, per un ragù delicato. L’osso poroso cede il sapore ma non il grasso. Con una cottura di circa 2 ore e mezza si ottiene un piatto simbolo d’Abruzzo.
Le spalle, invece, sono ottime al forno e aromatizzate al profumo di ginepro. Le costatine, golosissime e facili da reinventare. Le cosce sono un taglio nobile, perfette al forno o per uno spezzato d’agnello aromatico. Lo stinco è ricco di collagene. La cottura quindi è lenta, lo si nobilita con un altro prodotto simbolo d’Abruzzo: lo Zafferano dove lo stinco si crogiola. Filetto e controfiletto sono parti piccolissime con le quali si potrebbe azzardare un battuto a crudo. Non meno affascinante è il così detto quinto quarto: le interiora. La testa: la lingua, le guanciole e le cervella; il fegato e il cuore chiamati anche quinto quarto nobile, stomaco e budelline considerate il quinto quarto non nobile. Il fegatino cacio e uovo, coniato dallo Chef Tinari invece, vuole essere un omaggio alla tradizione, una citazione dell’originale “agnello cacio e ovo”. La ricetta, antichissima fu introdotta dai pastori quando la carne a disposizione era poca e le bocche della famiglia tante, la salsa all’uovo e formaggio rendeva più sostanziosa la pietanza.
Un altro piatto affermatosi nella tradizione e nato dalla necessità è “La pecora alla Callara”, la cottura lenta e dolce permette di utilizzare un esemplare non giovane che con altre preparazioni risulterebbe stopposo e filamentoso. Peculiarità che invece caratterizzano la “Musischia”carne di pecora vecchia o addirittura di capra che i pastori lasciavano a favore del vento a far seccare. Per esporre alla corrente le ferze di carne piantavano pali nella terra che tenevano tese delle corde. Anche “L’arrosticino” è un cibo da strada spartano e geniale che si fa con la pecora di fine carriera. Dopo una buona frollatura l’arrosticino va montato: un pezzetto di grasso e uno di magro alternati ed equilibrati. La “Fornacella” strumento apposito per la cottura predispone la distanza dalla brace. Vanno conditi con poco sale e serviti caldissimi. La vita dell’animale è descritta dal suo sapore ed odore e da questi è possibile capire se sia di allevamento o di pascolo. Farsi ispirare nella creazione di ricette dai sentori che sono stati propri dell’animale che se ne è nutrito, è un privilegio di chi conosce bene il territorio e i suoi frutti. Una passeggiata in montagna può essere una musa ispiratrice. Il burro di lardo di maiale con semi di zucca ne è un esempio. Il maiale si è cibato di quei semi e ne custodisce gli umori latenti, come un vaccino. Scovare quelle gemme di gusto e esaltarle è la vera arte.(ricetta dello chef Peppino Tinari)
Il dolce simbolo di “Villa Majella”, ristorante stellato di Peppino Tinari, chef che ci ha accompagnato in questo percorso, conduce per mano chi mangia nel percorso montano, come Virgilio. Il gelato al latte di pecora è il protagonista, il dolce alle mandorle, su cui il gelato è servito, racconta l’inizio del viaggio fino ad incontrare il gusto della pera delle valli e la salsa alle more che accompagna l’assaggiatore e il gregge alla fine del viaggio: ”La transumanza”, fino alla prossima stagione.