“Avevo sedici anni quando con la mia famiglia ho dovuto lasciare la mia casa, i miei parenti, i miei amici, la mia terra, i miei ricordi , per l’esodo, con altri 350mila italiani come noi. E la cosa peggiore è stata l’indifferenza che abbiamo trovato una volta arrivati in Italia, perché per tutti eravamo fascisti che tornavano in Italia a rubare lavoro, pane e casa agli italiani. E’ stato questo il vero trauma, non essere considerati ‘né carne né pesce’”.
Lo ha detto Alberto Diracca, Presidente Nazionale dell’Associazione Giuliano-Dalmati, esule egli stesso, nel corso dell’incontro odierno con gli studenti delle scuole medie ‘Pascoli’ e ‘Michetti’, riuniti nell’aula magna della scuola elementare di via Milano per la celebrazione del Giorno del Ricordo, promossa dall’assessore alla Cultura Giovanna Porcaro con la Dirigente scolastica Roberta Dalla Ragione e con molti genitori. Una giornata dedicata al ricordo del giovane Antonio Pieramico, un finanziere di appena 19 anni, originario di Montesilvano, di servizio presso il Comando della Guardia di Finanza di Fiume, tra i pochi abruzzesi a cadere vittima delle Foibe, dopo essere stato catturato durante un rastrellamento.
“Pescara non dimentica le grandi tragedie che hanno segnato il nostro passato – ha detto l’assessore Porcaro -. Nei giorni scorsi abbiamo ricordato con gli studenti della scuola media ‘Tinozzi’ il dramma della Shoah; ora è la volta delle Foibe, un tragico anniversario che la città ha già commemorato in maniera istituzionale, deponendo una corona ai piedi del Monumento dedicato al Giorno del Ricordo in piazza Martiri Giuliano-Dalmati. Ma anche in questa occasione abbiamo voluto coinvolgere fortemente i nostri ragazzi, per raccontare loro squarci di una storia sulla quale per troppo tempo si è taciuto, episodi che storicamente sono stati coperti dal silenzio e che hanno invece visto vittime tanti italiani, tra i 18mila e i 20mila, uccisi all’interno delle cavità carsiche. Italiani che venivano catturati sull’onda lunga dei rastrellamenti, legati gli uni agli altri con il filo di ferro, portati sul ciglio delle cavità, e poi si sparava al primo della fila che, cadendo, trascinava con sé tutti gli altri, i quali o morivano subito per le ferite riportate nella caduta o morivano, addirittura, dopo giorni, una modalità di sterminio che è stata sottaciuta per anni proprio per la sua incredibile crudeltà e inutilità”. E, dopo la proiezione di un filmato su Le Foibe, la testimonianza commossa di Diracca: “Ben 20mila morti, almeno 350mila esuli, 60 anni per avere un riconoscimento istituzionale in memoria e onore di quegli italiani vittime di una pulizia politica. Ricordo l’esodo, l’arrivo nei silos di raggruppamento, lavati nudi col disinfettante, il procedimento per prendere le impronte digitali, e poi il trasporto nei campi profughi, che erano i campi di concentramento austroungarici della Grande Guerra. I più fortunati, com’è accaduto a me e alla mia famiglia, sono stati portati nelle vecchie aule di scuole abbandonate, poi il trasporto nelle case popolari, ricordo la fame, i sacrifici, e, con pochi o niente aiuti dallo Stato, perché eravamo ‘scomodi’, ciascuno ha cercato una sistemazione. Poi c’erano i buoni, quelli che davano aiuto, ma erano pochi. Le Foibe erano le cavità carsiche del terrore, cavità che hanno imprigionato e spento la vita di 20mila italiani, perché nelle giornate Titine essere italiano a Istria, Fiume, e in Dalmazia significava essere fascisti, per gli ex Yugoslavi era così, e ricordo i tanti fratelli lasciati morenti per giorni all’interno di quelle cavità. Due anni fa, in estate, sono tornato in quei luoghi, durante le celebrazioni, a un certo punto, un uomo alto si è alzato, mi è venuto incontro e mi ha detto ‘Io sono il sindaco’, e io ho risposto ‘Io sono Diracca, un vero fiumano. Sì, siamo fratelli’. E ricordo Giovanni Ballatucci, l’ultimo questore di Fiume, che ha concluso la sua esistenza il 10 maggio del ’45 a Dachau, per il suo tentativo di riscattare il paese dall’odio razziale e oggi è beato e giusto tra le Nazioni. Avevo 16 anni quando con i miei genitori e i miei due fratelli siamo stati esodati, ma al di là della sofferenza e della fame, il dolore più grande è stato causato dall’indifferenza con cui i nostri fratelli italiani hanno accolto il nostro arrivo. Quando abbiamo superato il confine, arrivati ad Ancona, ci hanno dirottato su un binario morto della ferrovia, in un carro-vagone bestiame. Eravamo in 11, cinque della mia famiglia, 5 di un’altra famiglia, e un parroco salesiano vestito da operaio per non essere riconosciuto. Prima di ripartire verso Pescara ci hanno fatto aspettare cinque ore, cinque ore di paura, con mio padre, che era un legionario dannunziano, convinto che da un momento all’altro qualcuno avrebbe aperto quel vagone e ci avrebbero sparato e c’abbiamo messo 7 ore per percorrere 60 chilometri, E ci ha ferito l’indifferenza perché eravamo considerati solo dei fascisti, quando tutta l’Italia era fascista perché se non avevi il tesserino non potevi lavorare, noi eravamo ‘quelli’ che venivano a rubare pane, casa e lavoro ai ‘veri’ italiani, senza pensare a 350mila persone che avevano perso tutto”.