ll 6 gennaio del 1914 nasceva a Pescara Federico Caffè (leggi il nostro approndimento)
Avrebbe compiuto 101 anni ed è giusto spiegare ai pescaresi, che per troppo tempo lo hanno dimenticato, quale importanza ha avuto il Prof. Caffè e quanto sia attuale la sua lezione economica.
Il Presidente del Consiglio Comunale ha anche questo compito: Il fare memoria di una collettività perché la Memoria storica è un sapere.
Quando si parla della figura di Federico Caffè si può scegliere tra i diversi profili che lo hanno caratterizzato. Federico Caffè come uomo, Federico Caffè ed il suo pensiero economico, estremamente attuale, Federico Caffè come uomo di cultura o Federico Caffè come grande insegnante: "metalmeccanico dell'università -come amava definirsi- " riscoprendo l'importanza delle figura dell'educatore, troppo spesso dimenticata. Si può parlare del Prof. Caffè per l'utopia o per il suo riformismo radicale o, ancora, per il mistero della sua scomparsa.
Mi piace ricordare la figura del Professore come "consigliere del cittadino e non del Principe" come veniva definito, perché ci permette di guardare anche alla situazione che viviamo ed ai problemi legati al precariato, alla disoccupazione e all'ingiustizia sociale, tutti temi che caratterizzavano la lezione politica del professore e che coinvolgono soprattutto le giovani generazioni.
La Repubblica, qualche anno fa, in occasione della ricorrenza della sua scomparsa, dedicava due pagine intere a Federico Caffè. "Cold Case" era intitolato l'articolo, caso irrisolto come la serie piuttosto di moda del telefilm americano, ma la frase che più mi ha colpito era il riferimento a quelle centinaia di ragazzi che cercarono il Professor Caffè per tutta Roma. Raccontava il giornale dei "Ragazzi che cercarono Caffè".
Oggi come allora mi piace pensare che ci sia una città che ricorda il proprio figlio e dei ragazzi che cercano Caffè, cercano di scoprire la straordinaria attualità del suo pensiero e l'alto valore morale con cui sempre lo espresse.
Federico Caffè nacque a Pescara il 6 gennaio 1915. Ironizzò spesso su questa sua data di nascita. Diceva che lo aveva portato la befana in una calza piccola piccola. Caffè non era molto alto di statura. Arrivava a malapena ad un metro e mezzo. Ma non ha mai dato segni di sofferenza per la sua altezza.
Anzi, a volte ci scherzava: al bar quando gli offrivamo un caffè, specificava "corto" o "ristretto", ma anche questa statura paradossalmente gli permise di avere un osservatorio privilegiato. Viaggiava in autobus a Roma. Rinunciava a qualsiasi offerta di passaggio a casa, da chiunque essa provenisse per non abbandonare la linea 47 che lo accompagnava da casa (Monte Mario) all'Università La Sapienza (zona Termini), dove insegnava. La sua statura gli permetteva quasi di nascondersi dietro i sedili e di osservare ed ascoltare la gente comune. Affrontò sempre la politica come la "politica del piede di casa". Sono davvero toccanti le pagine in cui Amoroso racconta la simpatia di Caffè ‹‹per quelle migliaia di persone di cui non si parla mai, delle quali si sa poco o nulla›› e che il grande economista osservava con occhio attento e con partecipe simpatia.
Una serie di coincidenze caratterizzò anche la formazione di Federico Caffè. Il padre, lavorava alle Ferrovie dello Stato e, per una serie di sventure economiche ereditate, Federico non poteva studiare. Voleva fare il Liceo. Federico amava la cultura, ma a Pescara il Liceo non c'era, arriverà solo nel 1930. C'era il Tito Acerbo, che ogni anno insieme a Silvio Profico, suo alunno, ricorda questo figlio di Pescara.
Fu il padre a scegliere ragioneria perché gli avrebbe permesso un reddito.
Caffè divenne dunque economista suo malgrado!!
Ma al "Tito Acerbo" in quegli anni non si studiava soltanto ragioneria: si respirava un'atmosfera culturale diversa grazie al preside, Prof. Fiorentino Fazzini, che incitava alla lettura e organizzava concerti di musica classica.
Alla prova di maturità il commissario d'esame, arrivato a Pescara da un'altra città, rimase fortemente impressionato e gli chiese allora quale Università avesse deciso di frequentare ma lui rispose "Non credo che andrò all'Università: ho bisogno di lavorare." Il commissario, incredulo, si presentò di persona alla Stazione di Pescara per parlare con papà Caffè a chiedere che il figlio continuasse a studiare.
La questione fu risolta la sera stessa da sua madre che mise in vendita un piccolo terreno che aveva e Federico partì per Roma giurando in cuor suo di riacquistare la proprietà al più presto, il che avvenne pochi anni dopo.
Fu consulente del Ministro della Ricostruzione M. Ruini durante il governo Parri e fu consulente dell'ex Presidente Ciampi (allora governatore della Banca d'Italia)
Insegnò in varie università: Bologna, Messina e Roma dove laureò 1200 alunni. Preferiva laureare allievi alla scrittura di testi e questi restarono molto legati a lui. Era definito: 'Metalmeccanico dell'università', questo il suo ruolo, per sottolineare gli orari ed il duro lavoro con cui ricopriva il suo impiego pubblico fino al limite dell'età pensionabile.
Nella notte tra il 14 ed il 15 aprile Caffè usciva dalla casa con cui viveva a Roma col fratello Alfonso.
Uscì di casa da solo, lasciando il fratello ma lasciando anche le chiavi, il passaporto, il libretto di assegni e gli occhiali sul comodino: quasi un modo di chiudere gli occhi su una società di cui più volte era stato un autorevole commentatore sulle pagine del Manifesto e del Messaggero e dalle pagine del Mondo.
Aveva lasciato quegli occhiali con cui l'economista, a servizio dei cittadini e non del principe, aveva studiato il mondo e l'economia, quegli occhiali "troppo oggettivi" che lo avevano portato ad essere annoverato tra gli economisti cd. "innominati", quelli scomodi come Paolo Sylos Labini e Graziani. Caffè scomparve in un clamore silenzioso, del tutto diverso da quello che qualche tempo prima, solo 4 giorni, aveva accompagnato il suicidio di Primo Levi, che Caffè aveva anche commentato "Che gran brutta maniera di uccidersi. Che spettacolo straziante farsi trovare così dai parenti".
Un indizio da far sospettare che anche l'economista pensasse al suicidio, ma in un modo meno clamoroso e meno pubblico.
Varie ipotesi accompagnarono la sua scomparsa ma Caffè scriveva in una lettera ad un suo alunno nel 1980 (7 anni prima): "mi fanno sentire un monumento, mi piacerebbe sentirmi vivo".Per il Professore la lontananza dalle aule universitarie, la tanto sospirata pensione, non era diventata "l'agognato riposo di una vita di lavoro" ma era vissuta quasi come un esilio.
Caffè aveva letto la vita di Tolstoj e del suo allontanamento alla ricerca della solitudine. L'economista giudicava positivamente l´usanza degli anziani indiani e degli eschimesi di andarsene a morire lontano dalla tribù.
Non è un caso che la vicenda di Caffè sia stata avvicinata a quella del fisico nucleare Ettore Maiorana anche lui misteriosamente scomparso (si imbarcò da Napoli la sera del 25 marzo 1938 e non arrivò mai a Palermo) e anche per lui si è ipotizzato che abbia scelto di rifugiarsi in un convento. Questo evento viene trattato da Sciascia nel suo libro: "La scomparsa di Ettore Majorana". Caffè amava Sciascia e, fatto curioso, sembra che dalla libreria del professore mancasse proprio quel libro".
Il tutto merita un profondo rispetto.
Ciò che Caffè non merita è invece la mancanza del ricordo di quello che fu in vita; anzi, autorevoli commentatori sono arrivati a teorizzare che questo modo di uscire di scena potesse rappresentare proprio un modo per tenere viva l'attenzione su quanto il professore teorizzò.
Cosa resta della sua eredità intellettuale?
Molto, i temi che trattava sono ancora oggi di grandissima attualità.
Caffè aveva intuito su quali strade si avviava l' economia. Non gli piaceva la piega presa in quegli ultimi anni dal paese, non poteva condividere la filosofia della Milano da bere, della ricchezza a tutti i costi, del gioco in Borsa fine a sé stesso.
E Pescara? Che rapporto ebbe il professore con la sua città e la sua città con lui?
Caffè, qualche giorno prima di morire, rilasciò un'intervista alla giornalista Nadia Tarantini in cui dimostrò tutto l'amore per la sua città e alla domanda se Pescara si fosse dimenticata di questo suo figlio rispondeva: "Pescara ha proprio dimenticato questo suo figlio, pensi ho donato i miei libri all'Università D'Annunzio e non ne ho ricevuto neanche il riscontro"; e concludeva: "avranno le mie ossa", ma poi la scomparsa ci privò in effetti anche di queste.
Noi pescaresi abbiamo un debito verso questo grande concittadino. Non dedicammo la giusta attenzione quando Caffè operava e lo dimenticammo dopo la sua scomparsa nel 1987.
Sono convinto che tutti noi dobbiamo essere capaci di interpretare la lezione economica di Federico Caffè, perché tramite l'attualità, il continuo riferimento al quotidiano, si può interpretare la sua scomparsa nella notte tra il 14 e 15 aprile 1987 come l'uscita di casa e non l'uscita di scena.
E' vero, proseguono ogni anno le attività dell'Istituto Acerbo in ricordo di Caffè, ma sono sicuro che si può fare molto ma molto di più per affiancare a giusto titolo la figura di questo Professore ai grandi cittadini abruzzesi, a D'Annunzio, a Flaiano (con cui condivide l'aspetto della solitudine, la solitudine del riformista in Caffè...la solitudine del satiro in Flaiano) a Cascella.
Andrebbe creata una fondazione: una fondazione di studi da intitolare a Federico Caffè; per questo motivo lancio nuovamente la proposta alla politica, agli imprenditori ed agli accademici pescaresi.
Sono convinto che tutti noi dobbiamo essere capaci di interpretare la lezione economica estremamente attuale di Federico Caffè, perché tramite l'attualità, la semplicità, il continuo riferimento al quotidiano e l'estrema concretezza di quella lezione economica si può interpretare la sua scomparsa nella notte tra il 14 e 15 aprile 1987 come l'uscita di casa e non l'uscita di scena.
Caffè non è uscito di scena!
E non è uscito di scena per i 1200 allievi che si laurearono con il "Metalmeccanico dell'università"; ma non è uscito di scena per il pensiero, un "pensiero lungo" per utilizzare un'espressione berlingueriana, che lo rese antipatico come è antipatica qualsiasi persona autonoma: l'autonomia è una cosa che si paga.
A dir poco fenomenale per chiarezza la definizione del riformista e della sua solitudine, nell'articolo del 1982 comparso sul Manifesto, una delle migliori definizioni.
Federico Caffè, a volte definito "riformista radicale", era di formazione keynesiana e fece sempre una coerente opposizione all'ondata liberista e monetarista (tacheriana) che dominava la scena all'inizio degli anni '90.
Sostenitore della centralità dello Stato Sociale, quindi convinto che le sue disfunzioni dipendano solo dal malcostume del clientelismo, riteneva che l'economia ha il dovere di risolvere le condizioni di vita dei più deboli favorendo l'assottigliamento delle disuguaglianze. Caffè auspicava anzi l'intervento dello Stato nell'economia se questo fosse servito a garantire la piena occupazione.
Caffè citava spesso una storia. Era la storia di una ragazza che sale una montagna indiana, molto scoscesa, con in braccio un bambino e incontra un fotografo che affaticato dalla salita le chiede: "E' pesante?". La ragazza guarda stupita e con un sorriso risponde: "No, è mio fratello". Negli affetti il peso non conta, così nacque la solidarietà che termina quando abbiamo cominciato a contare e a pesare.
Caffè era un liberale che scriveva soltanto su un quotidiano comunista.
Una spiegazione probabile è che Caffè vedeva nel "Manifesto" l'unico giornale, il cui direttore non poteva imporgli di scrivere, non poteva rampognarlo per quanto avrebbe scritto e non poteva pagarlo: la condizione ideale per un uomo libero e soprattutto per mantenere un'assoluta indipendenza di giudizio.
Egli era contro il mercato fine a se stesso, contro la dottrina che affida alla cosiddetta "mano invisibile" il governo del mondo.
Ma la sua battaglia più dura fu contro il mercato finanziario. E' memorabile la sua definizione della " borsa" che egli considera "un gioco spregiudicato che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori..".
Caffè poi parla del ruolo dell'economista consigliere del politico. Da una parte, dice ci sono gli economisti che razionalizzano le decisioni dell'autorità politica (sono i consiglieri del principe) e dall'altra ci sono gli economisti che, da posizioni accademiche e con impegno civile, cercano di guidare il dibattito pubblico (sono i consiglieri del cittadino), quelli che sono considerati scomodi.
Le parole che riecheggiano nella lezione di Caffè sono: emarginazione, povertà, sociale, occupazione e piena occupazione, l'uomo al centro della sua visione e l'uomo come valore in sé, la diffidenza verso il libero mercato che si autoregola, lo stato sociale come conquista irrinunciabile, il mercato che dev'essere subordinato alle istituzioni della società civile perché non ha virtù taumaturgiche e genera ingiustizie sociali.
Nel giorno del suo compleanno il ricordo è l'augurio a Pescara.